Chi pratica il Voice Dialogue sa che dentro ciascuno di noi coabitano numerose energie contrapposte, e che tutte possono avere voce. Nel film canadese ‘La donna che canta” di Denis Villeneuve che ho appena visto, queste voci e queste emozioni emergono in modo contrastante ed inconciliabile, e danno vita ad avvenimenti e ad un finale sorprendente.
Penso che non si possa dire “Bello!” dopo la visione del film. Si può dire “ Questo succede!?” con stupore ed incredulità, sentendo dentro di noi che è possibile, così come afferma uno dei personaggi: Molte cose che sembrano impossibili succedono. Non ho avuto, dopo la visione grandi pensieri o reazioni, ma la mattina dopo, in un momento di distrazione della mente, nel silenzio dei pensieri mentre le mani che compivano gesti meccanici, ho riflettuto ed individuato alcuni punti che voglio condividere.
Non andate a vederlo se avete avuto una giornata emotivamente pesante e se vi verrebbe voglia di tirare calci al mondo per la rabbia. Se volete usarlo didatticamente non incoraggiate la lettura di commenti o analisi prima. Lasciate che sia la sorpresa e l’incredulità a guidarne la visione. Che si presenta talvolta faticosa per lo spostamento dei piani temporali, l’identità del paesaggio, la somiglianza estrema fra le due protagoniste. Perché segnalo questo film alla vostra attenzione? Per due motivi.
Uno è la trama stessa del film: la ricerca della storia della madre. Ci sono questi due giovani, gemelli. La giovane donna vuole sapere e parte per il suo viaggio. Ripercorre fisicamente i luoghi e il regista usa qua e là le stesse identiche inquadrature e sovrappone le due esperienze. L’identità dei luoghi fa talvolta venire i brividi: è come se fosse un non luogo, dove cose terribili possono essere successe, succedere ancora e non lasciare traccia apparente. Come la nostra anima quando si ricompone per dimenticare le violenze e gli abusi subiti.
L’incontro con le persone che sono ancora lì, compresenti al viaggio della madre e della figlia, mostra l’eredità famigliare delle emozioni: il rifiuto del gruppo delle donne che pure offrono il the alla giovane, la compassione del carceriere che, pur nel suo ruolo, non aveva infierito sulla madre. Il fratello giudica la madre come sempre assente, e, ora che è morta, non vuole saperne più delle sue storie. Ma quando comincia ad essere coinvolto dalla ricerca capisce che, in qualche modo, ne porta una traccia biologica. Lo dichiara con una battuta amara.
Il silenzio, al momento della comprensione del nodo drammatico delle loro vite accomuna i protagonisti fino all’immagine finale del film. Non può esserci altra reazione all’orrore che il ritrarsi di tutte le nostre energie verso un punto così interno che non può essere visto o sentito. Irraggiungibile se non facciamo appello alla compassione. La compassione (cum patio = soffro con te) che sostiene la nostra empatia quando in una seduta di Voice Dialogue incontriamo un dolore che ci porta ad affrontare un segmento della storia della nostra vita per cercare di conviverci con maggiore chiarezza.
Questo è il secondo motivo della mia segnalazione. E’ con compassione che la madre, nel grande amore che l’aveva mossa per il suo viaggio, scrive le lettere del suo testamento, inducendo i figli a ripianare la storia della famiglia. Compassione e rabbia o risentimento per l’oltraggio subito che in lei squarciano la soglia di quello che il suo animo affaticato può contenere.
Ed eccole allora le emozioni di cui parlavamo, eccole in tutta la loro portata: contrastanti ed inconciliabili emergere da quelle due lettere finali, che la protagonista separa, ma da cui è dilaniata. Sarebbe difficile per chiunque, lì, trovare un Io Consapevole.